di Frate Domenico Spatola

La sua missione appresa direttamente dal Crocifisso
Illuminò il secondo Millennio, come Benedetto da Norcia aveva fatto con il primo. Vita in semplicità, senza retorica, quella di Francesco, misurata sul Vangelo. La scelta fu sua e di Cristo in reciproco “Alter ego”. Mimesi fino all’identificazione. Assisi fu la Betlemme per la nascita, e la Verna fu il suo Calvario. Dodici i primi compagni che, appresso a lui, scelsero la povertà totale, per “il mio Dio è mio tutto”. Rivotorto fu tugurio squallido, e la Porziuncola troppo minuscola per offrire dimora. San Damiano custodisce racconti di mistero. Qui Francesco apprese la missione, direttamente dal Crocifisso: “Vai, e ripara la mia casa, che minaccia rovina”. Ma la Porziuncola fu l’atomo da cui tutto si irradiò. “Non lasciatela mai!” raccomandò a testamento ai frati.
Sorella Chiara
Sorella Chiara, gentile, vi depose la chioma, votata allo stesso ideale di povertà. Poi fu a San Damiano, l’albergo delle “povere Dame”, in mistica francescana tutta al femminile. Un’intera generazione partecipò alla “spoliazione” di Francesco davanti al vescovo Guido che, a conto della Chiesa, lo ricoprì col mantello. Aveva barattato il padre terreno con quello del cielo, ormai tutto suo. Assisi lo vide, “penitente”, elemosinare il pasto, ma Angelo, il fratello consanguineo, lo irrise. Bernardo lo ospitò e ne rimase conquiso, fino a liberarsi di tutto a favore dei poveri e seguirlo. Altri numerosi, un tempo compagni di feste, ora gli erano appresso. “Dietro allo Sposo, la Sposa piace” (Dante). Sposo era il Cristo e sposa la Povertà che lo “raggiunse in su la croce”.
Tutto gli parlava di Dio
Francesco “vir evangelicus” predicò pace in sua crociata originale. Parlò al sultano d’Egitto di pace e al rientro a Fonte Colombo, arginò i Frati in sommossa per la Regola interpretata dura ma da osservare “sine glossa”, era infatti la “medulla Evangelii”. A Greccio volle il primo Presepe, quel Natale del 1223. Qualcuno giurò di avere sentito il vagito del Pargoletto tra le sue braccia. Al “Capitolo delle Stuoie”, i cinquemila frati chiesero organizzazione. Nacquero i Fioretti. Racconti ibridi di favole e storie del cuore. In “simpatia cosmica” con l’universo: tutto gli parlava di Dio. L’inno a fratello Sole e a sorella Luna fiorì spontaneo. Anche le stelle gli parvero “clarite et belle”. E l’acqua? “Umile et casta”. A frate Focu raccomandò meno turgore e dell’aere e del vento cantò la mitezza. Le più belle lodi le serbò per la Terra, “madre, che ci guberna et sostenta et produce fructi con coloriti fiori, et herba”. E non ultimo fu il suo canto a “sorella Morte corporale, dalla quale nullo homo vivente può skappare”. Disse “beati coloro che moriranno nelle tue santissime voluntati, ka la morte secunda non farà male”. Trionfale l’inno finale al Creatore: “Laudate et benedicete il mì Signore”. Laude, intonata con soffio estremo che gli restava, e, pur da ottocento anni, riecheggia potente nell’immensità del cielo, come nel cuore degli innamorati di suo stesso ideale.
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