Riflessioni su “I promessi Sposi”, celebre opera di Manzoni che si snoda tra individualità e collettività, abbecedario di psicologia per ogni età e gusto

7 Novembre 1628

di Frate Domenico Spatola

Data manzoniana. Da essa infatti hanno inizio “I Promessi Sposi”. Storia vera o inventata. Comunque somigliante. Il don Abbondio e i due “bravi” di don Rodrigo, stavano ad aspettarlo al bivio, dove la strada si diramava, a inizio della farsa. Il divieto è dell’innominabile mandante: “Questo matrimonio non s’ha da fare!”. Don Abbondio, terrorizzato, promette obbedienza a chi non doveva. Il racconto si sviluppa su drammi giocati sulla psiche dei personaggi icasticamente unici, e in un campionario mai banale. La lotta dichiarata fu a “singolar tenzone”, tra l’arrogante don Rodrigo e il mite cappuccino, addomesticato da Dio, frate Cristoforo. Così radiali dei protagonisti, Renzo e Lucia, formano girandola personaggi, definiti intarsi come miniature per enfatizzare e riuscire a stampare in maniera indelebile, in chi legge, memorie di passioni. L’umorismo dell’autore non manca a stemperare drammi. Fuori campo, i suoi commenti procurano ilarità per contraddizioni e arguzie dei personaggi come l’Azzeccagarbugli o il Conte zio. Non raccolti altri dettagli che sono miriade, personaggi stampati a modello ma pensati a mito.

Mai patetico l’autore, pure nel descrivere la peste e i lamenti degli appestati

La narrazione si sviluppa ibrida tra individualità e collettività. Abbecedario di psicologia per ogni età e gusto. Mai patetico l’autore, pure nel descrivere la peste e i lamenti degli appestati. La morte di Cecilia e della madre sono trattate con lirismo insuperabile. Urge compassione per Gertrude. La monaca di Monza, vittima della società aristocratica per denaro e potere e, a sua volta, essa stessa carnefice. Crisi diversa fu l’Innominato, che la parola di Lucia e il cardinale Federigo ricondussero alla grazia. Guerre interminabili tra Francesi e Spagnoli, combattute su italico suolo, rendono più fosco il quadro, già compromesso dalla carestia che imbestialì il popolo contro il Vicario spagnolo in Milano, la peste, tragedia d’Europa per tutto il secolo. Riuscì catartica nel lazzaretto di Milano per Renzo e Lucia con il perdono accordato a don Rodrigo morente, causa dei loro guai.

Renzo e Lucia furono il pretesto iniziale di una storia, che la Provvidenza volle, nonostante i travagli, a lieto fine

Lessi “Fermo e Lucia”, ma era bozza. Mi parve preistorica. Deludente e senza confronto col capolavoro, definitivo e “sciacquato coi suoi panni nell’Arno”. Dieci anni Manzoni dimorò a Firenze per l’Opera che lo renderà immortale. Capolista di letteratura irrangiungibile lo fu per i romanzieri che si provarono cimentarsi dopo di lui. Sprovincializzata la letteratura italiana per destini mondiali, divenne tuttavia difficile per seguaci continuare sulla stessa scia, senza essere accusati di plagio. Giovanni Verga batté altra strada, e fu se stesso. I romanzi di Pirandello saranno diversi perché improntati dalla poetica del suo Teatro, qualificante introspezioni. Victor Hugo non gli fu alla pari, con “I Miserabili”. Manzoni non scade mai in romanticherie patetiche. Anche il minor personaggio è da lui trattato senza mai sbavature. Renzo e Lucia furono il pretesto iniziale di una storia, che la Provvidenza volle, nonostante i travagli, a lieto fine. Si sposeranno e avranno figli. Ma i due anni della vicenda, il tempo di durata della intera narrazione, hanno respiro universale. Di Manzoni fu l’opera come un “poema sinfonico” con gli strumenti dell’orchestra, mai assolutamente singoli, né confondibili nella massa. Della sinfonia si ascoltò l’incipit quel 7 novembre 1628.

Foto tratta da Wikipedia

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